Non solo l’Ucraina, ecco i dieci conflitti dimenticati nel mondo
Non c’è solo la guerra in Ucraina nel mondo. Si combatte, ad alta o bassa intensità, con periodi più cruenti e altri apparentemente calmi, in molte altre zone nel mondo. Guerre o guerriglie che in alcuni casi vanno avanti da anni, in altri sono scoppiate di recente.
- In Siria, ad esempio, la situazione al momento appare in stallo. I combattimenti per la conquista del territorio si sono affievoliti ma senza mai terminare completamente. Il cessate il fuoco concordato nel Nord-ovest del Paese a inizio 2020 non ha impedito scontri armati nella zona di Idlib, l’area ancora in mano agli anti-governativi, che hanno complicato ulteriormente la già difficile situazione umanitaria. La lotta per il potere è ancora in corso. Gran parte del Paese è stato distrutto dai combattimenti, inclusi i sei siti Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco.
- In Yemen, il 2020 e il 2021 sono stati gli anni più cruciali tra i sei già trascorsi per la risoluzione del conflitto e parallelamente quelli che hanno già definito, nel Sud del Paese, un riequilibrio di forze militari sul terreno e di rappresentanze politiche e tribali nel Governo centrale. Il quadro generale sembrerebbe far propendere per una possibile risoluzione del conflitto con una probabile risuddivisione dello Yemen in Nord e Sud e un’ipotesi di federazione sul lungo periodo. Tutto questo non senza una ultima battaglia senza quartiere tra il Governo centrale e gli alleati sauditi contro il Governo non riconosciuto delle tribù houthi al Nord per la conquista del ricco e strategico governatorato del Marib. Se la battaglia finale in Yemen si gioca nel Nord, il Sud si è assestato su equilibri mediamente consolidati.
- In Etiopia. Mesi fa l’esercito federale è entrato nel capoluogo tigrino spodestando il Governo del Fronte Popolare di Liberazione del Tigray (Tplf). Il numero esatto di morti e feriti, sia militari che civili, al momento non si conosce. Fino a febbraio 2021, l’Etiopia ha costantemente negato la presenza sul suo territorio di truppe eritree, schierate con le milizie regionali amhara e afar, tradizionali nemici dei tigrini. Ugualmente, ha negato gli attacchi a quattro campi Unhcr abitati da profughi eritrei fra dicembre 2020 e inizio 2021, campi che sono stati distrutti e dai quali sono state deportate in Eritrea almeno 10mila persone. E poi ci sono stati i massacri di civili e gli stupri di gruppo, tutti imputati alle truppe asmarine da numerose organizzazioni per i diritti umani. Alla fine del 2021, dopo 14 mesi dal suo inizio, la guerra civile che contrappone Addis Abeba alle forze regionali tigrine pare essere entrata in una fase di logoramento.
- In Mali, due sono stati i colpi di Stato in meno di nove mesi. Dopo aver deposto, a seguito di una lunga serie di proteste popolari, l’allora presidente Ibrahim Boubacar Keita, il 24 maggio 2021 la Giunta guidata dal colonnello Assimi Goita è tornata a esercitare, manu militari, la propria influenza sulla politica nazionale del Mali. Un rimpasto di governo tentato per riequilibrare i poteri civili dal Consiglio Nazionale di Transizione (Cnt), organo preposto a traghettare il Paese verso libere elezioni (inizialmente previste a febbraio 2022), e stata la miccia che ha innescato gli uomini di Goita. I blindati sono tornati nelle strade di Bamako. Diversi politici, attivisti e cittadini contrari alla svolta autoritaria della Giunta, sono stati incarcerati. A completare un quadro già fosco, il proliferare di gruppi armati, fra indipendentisti tuareg e milizie etniche di autodifesa, soggioga la popolazione del Centro-nord del Mali a quotidiane violenze e vessazioni.
- In Repubblica democratica del Congo, se formalmente non è più in guerra, l’Est rimane preda di centinaia di gruppi armati, molti dei quali bande locali legate al controllo di un territorio e delle sue risorse. Esistono anche milizie più strutturate che destabilizzano alcune aree. Superata la crisi sicuritaria nella Regione centrale del Kasai causata dai Kamwina Nsapu, l’insicurezza è ormai concentrata nelle tre province orientali del Sud Kivu, Nord Kivu e Ituri. La situazione di gran lunga peggiore è nell’area di Butembo-Beni, in Nord Kivu, dove dal 2014 le Allied Democratic Forces (Adf) compiono stragi di civili con un’efferatezza che non ha eguali. L’Adf assalta villaggi, attacca civili uccidendoli barbaramente con armi ‘bianche’, seminando il terrore e provocando fughe di popolazione.
- In Sudan del Sud, dopo otto anni di guerra, è in mano a un’élite militare che controlla le risorse e massacra la popolazione. La ‘somalizzazione’ del territorio è ciò che caratterizza questa guerra. Gruppi armati controllano porzioni di territorio e solo idealmente fanno riferimento alle due principali parti in lotta. Una guerra nella guerra. Si trovano sempre più villaggi attaccati, con forme di violenza estreme tipiche di questo conflitto: uccisioni di massa, comprese donne e bambini, mutilazioni, stupri.
- In Libia. Con le elezioni del 5 febbraio del 2021 sotto l’egida dell’Onu, la Libia si è data un nuovo esecutivo guidato da Abdul Hamid Dbeibah e Mohamed al-Menfi a capo del Consiglio presidenziale. Il “Governo di tutti i libici”, chiamato a guidare il Paese nel percorso di transizione democratica fino alle elezioni previste per il 24 dicembre scorso e poi rinviate, ha formalmente posto fine alla separazione tra quello di Fayez Al Serraj a Tripoli, noto come Governo di Accordo Nazionale (Gna) e riconosciuto a livello internazionale, e quello fedele al maresciallo Khalifa Haftar, con sede a Tobruk. Ma intanto i trafficanti di esseri umani e le milizie che li sostengono hanno accelerato le loro attività, mentre un altro nodo ancora non risolto è quello dei mercenari stranieri che non solo non hanno aderito all’appello di lasciare il territorio, ma che in alcune località avrebbero rafforzato le loro posizioni. La guerra al momento è cessata, ma la situazione rimane pronta a riesplodere.
- In Nagorno-Karabakh. Nel 2020 si è scatenata una guerra combattuta fra le forze armene del Karabakh, sostenute dall’Armenia, e quelle azere, appoggiate dalla Turchia. Dopo tre cessate il fuoco falliti, il presidente azero Ilham Aliyev, il Primo ministro armeno Nikol Pashinyan e il presidente russo Vladimir Putin hanno firmato un accordo, entrato in vigore il 10 novembre scorso. La fine dei combattimenti, però, non ha portato la pace, anche se ha posto fine agli scontri più aggressivi a cui la Regione avesse assistito in quasi tre decenni. Le vittime sarebbero circa 6mila, tra cui circa 150 civili.
- In Somalia è invece teatro di instabilità politica e massiccia presenza del terrorismo islamico. Preoccupante, infatti, è la capacità di infiltrazione del gruppo estremista islamico al-Shabab oltre confine. Negli ultimi mesi del 2021 si sono intensificati gli attentati in zone urbane. Una parte minoritaria del gruppo terroristico si è scisso e questa rottura si ripercuote pesantemente sulla popolazione: tra la fine del 2018 e i primi mesi del 2019, entrambi i gruppi, quello filo qaedista degli Shabab e quello affiliato all’Isis (denominato Islamic State in Somalia-Abnaa ul-Calipha), hanno cominciato a taglieggiare la popolazione, le imprese e le società per autofinanziarsi
- In Burkina Faso, è diventato l’epicentro della devastante crisi che attanaglia tutto il Sahel. Un’emergenza umanitaria, sociale, sanitaria e politica dovuta alla carestia, al Covid19 e all’azione dei gruppi estremisti islamici sempre più violenta. Violenze che si sono intensificate negli ultimi due anni soprattutto nelle Regioni settentrionali del Paese, caratterizzate da attacchi di forze ribelli, di gruppi islamisti o, talvolta, anche delle cosiddette milizie «di autodifesa», con un bilancio di oltre 1.600 vittime dal 2015. Presi di mira in particolare le scuole, i mercati, i punti d’acqua. Un colpo di Stato militare il 24 gennaio 2022, promosso dal Patriotic Movement for Safeguard and Restoration (Mpsr), ha visto arrestare e deporre il Presidente Roch Marc Christian Kaboré.
Tratto da: La Stampa 09 Marzo 2022
Ovunque bambini, donne, anziani e civili inermi, stuprati, barbaramente massacrati, anche con armi ‘bianche’ per smembrarne i corpi e renderne irriconoscibili i tratti etnici.
Perché, quasi sempre, l’obiettivo di queste violenze è la “pulizia etnica”; una “pulizia” che passa sempre attraverso l’atroce eliminazione delle donne e dei bambini – portatori futuri di queste etnie.
Interi popoli terrorizzati e costretti a migrazioni di massa verso regioni, a loro estranee, le quali sono spesso in condizioni umanitarie e di stabilità sociale peggiori di quelle dalle quali fuggono.
Costretti ad affrontare situazioni disperate, ad attraversare zone desertiche o dalle condizioni climatiche disumane, con mezzi di sussistenza inadeguati, si ritrovano spesso, inconsapevolmente, in zone di guerra, anche di carattere tribale, o in zone invase da bande terroristiche e sanguinarie per le quali il valore della vita non esiste.
Molti di loro, pur non avendolo mai affrontato, decidono di attraversare il mare salendo su imbarcazioni, talmente insicure, da essere definite, nell’uso comune, “carrette del mare”.
Migrazioni che portano molti di loro alla morte dalla quale erano riusciti a sfuggire.
T.M.